L' autonomia del sostentamento del clero

Per riconoscere formalmente l’autonomia del sostentamento del clero, occorre attendere il V secolo e la “quadripartizione gelasiana”. I pontefici Simplicio e Gelasio prescrivono che i redditi derivanti dalla massa patrimoniale di ciascuna chiesa particolare non vengano impiegati ad arbitrio del vescovo, ma siano divisi in quattro parti, destinandone una allo stesso vescovo, una al clero della comunità, una ai poveri e una per la costruzione e la manutenzione degli edifici di culto. Questa ripartizione dei redditi è diventata una legge universale. Il sostentamento del clero ha sempre avuto un ruolo importante nella vita patrimoniale della Chiesa, ma la sua attuazione è stata spesso controversa. 

Nel corso dei secoli ci sono stati abusi, distorsioni e fraintendimenti che hanno portato a opposti eccessi di opulenza e rifiuto dei beni materiali. Il Concilio di Trento ha tentato di raggiungere un equilibrio tra l’impegno e la responsabilità del chierico, il suo sostentamento e i beni materiali che devono garantirlo. Il Concilio ha inoltre ribadito il divieto di ordinazione sine titufo, senza un’adeguata garanzia di sostentamento per l’ordinando, e ha condannato la pratica della titolarità di più benefici da parte di un solo soggetto. Queste norme hanno inciso positivamente nella vita della Chiesa post-tridentina. La prima codificazione canonica del 1917 ha ereditato l’impostazione tridentina, riconoscendo espressamente la finalità del sostentamento del clero come una finalità propria del patrimonio ecclesiastico.

Nel periodo che va dalla consolidazione della proprietà ecclesiastica fino alla fine del XVIII secolo, il sostentamento del clero era garantito principalmente attraverso il patrimonio della Chiesa e l’istituto beneficiale. Tuttavia, il potere secolare cercava sempre più di controllare questa proprietà a causa della sua rilevanza economica e sociale. Durante il periodo delle grandi rivoluzioni, si affermò l’idea del culto come servizio pubblico, regolato dallo Stato. Questa visione portò alla nazionalizzazione dei beni ecclesiastici e all’abolizione dei privilegi finanziari della Chiesa. In Francia, la Costituzione civile del clero del 1790 segnò l’ultimo atto di questa fase di cambiamento. In Italia, dopo l’Unità d’Italia, il governo cercò di controllare il sostentamento del clero attraverso leggi come quella delle “Leggi per la soppressione degli enti ecclesiastici” del 1866 e quella della “Liquidazione dei beni del clero non utilizzati per fini di culto” del 1868.

Le risorse per la contribuzione civile provenivano dal Fondo per il culto e dal Fondo di beneficenza e religione per la città di Roma, che erano stati costituiti con il patrimonio ecclesiastico secolarizzato. Il sistema di contribuzione civile non doveva essere interpretato come una riparazione da parte dello Stato per l’incameramento del patrimonio ecclesiastico, ma come una forma di sostegno alla funzione territoriale e sociale svolta dalle parrocchie e di consenso verso i parroci, che avevano una forte influenza sulle popolazioni. Inoltre, il sistema rifletteva l’affermarsi di una concezione esclusivista della sovranità statale, che considerava i beni ecclesiastici come proprietà della Nazione. Tuttavia, l’articolo sottolinea che non si deve trascurare il fatto che ci sono state anche altre ragioni storiche che hanno sorretto il sistema di contribuzione civile.

Dopo l’unificazione dell’Italia, il governo ha continuato a finanziare il clero attraverso il sistema di congrua, ma ha cercato di limitare il potere della Chiesa nella società. Nel 1870, con la presa di Roma, lo Stato ha completato il processo di secolarizzazione del potere temporale della Chiesa, mettendo fine al potere politico del Papa. In questo contesto, il governo ha adottato una serie di leggi per limitare il potere della Chiesa nella società, tra cui la legge sul matrimonio civile e la legge sulle associazioni. Tuttavia, la Chiesa ha continuato ad esercitare una forte influenza sulla società italiana, in particolare nelle aree rurali, dove i parroci erano spesso gli unici leader locali. La Chiesa ha anche continuato a svolgere un ruolo importante nella fornitura di servizi sociali come l’istruzione e la beneficenza, seppur sotto il controllo del governo. In generale, la relazione tra la Chiesa e lo Stato italiano nel periodo post-unitario è stata caratterizzata da conflitti e tensioni, ma anche da una profonda interdipendenza. Il sistema dei benefici ecclesiastici in Italia, il cui obiettivo era garantire un sostentamento stabile ai titolari degli uffici ecclesiastici senza dover cercare fonti di reddito occasionali o saltuarie, non ha funzionato come previsto. 

La personalità giuridica civile dei benefici è stata riconosciuta dal sistema italiano, confermando la possibilità del riconoscimento di nuovi benefici. Lo Stato italiano aveva un ruolo significativo nel sostentamento del clero attraverso il sistema dei supplementi di congrua. Nel 1866, è stato stabilito un reddito minimo netto di 800 lire annue per i parroci delle parrocchie con più di 200 abitanti. Il Fondo per il Culto è stato impegnato a integrare i redditi derivanti dai benefici parrocchiali con il supplemento necessario al raggiungimento di tale cifra. Nel 1892, il diritto all’assegno di congrua è diventato assoluto, eliminando la condizione della disponibilità economica da parte del Fondo di Culto. Il minimo della congrua parrocchiale è stato progressivamente elevato nel tempo. Dopo la prima guerra mondiale, il diritto all’assegno di congrua è stato esteso ad altre categorie del clero non strettamente parrocchiale. Il sistema dei benefici ecclesiastici è rimasto in vigore fino all’Accordo di revisione concordataria del 1984, sebbene con una serie di interventi normativi che ne hanno modificato l’originale conformazione giurisdizionalista.

Il sistema dei benefici ecclesiastici in Italia ha subito un radicale cambiamento a partire dal Concilio Vaticano II, fino alla revisione del Concordato lateranense del 1984
La riforma dei benefici, articolata in tre fasi, ha coinvolto l’ordinamento canonico e il corpus normativo concordatario, ed è stata necessaria per garantire l’efficace perseguimento del proprio scopo e la libertà di organizzarsi e di esercitare il ministero sacro.
Il sostentamento dei sacerdoti in Italia e il suo sistema economico-giuridico sono stati influenzati dalle discussioni dei Padri Conciliari relative al ministero sacerdotale e alla sua centralità. Il Decreto conciliare sul ministero e la vita dei presbiteri Presbyterorumordinis (PO) ha stabilito che i sacerdoti hanno diritto ad una remunerazione equa e dignitosa per le funzioni loro assegnate come servizio di Dio. La retribuzione non deve essere intesa come una controprestazione tecnica ma come una remunerazione che soddisfi le legittime esigenze dei singoli e la giustizia distributiva. Il sostentamento dipende dall’ufficio e non viceversa, e l’ufficio stesso deve essere messo in primo piano rispetto alla problematica relativa al sostentamento. Il diritto al sostentamento diviene oggetto di un diritto pro officio e non più pro beneficio.
Il nuovo sistema di sostentamento dovrebbe ispirarsi alla Chiesa delle origini, in cui i beni erano amministrati da un’unica massa comune gestita dal vescovo, che provvedeva anche alle esigenze di sostentamento dei chierici. Secondo il Concilio Vaticano II, il sostentamento del sacerdote è un dovere dei fedeli e non solo un diritto del clero. I fedeli hanno quindi il compito di garantire ai presbiteri i mezzi per condurre una vita onesta e dignitosa.

È compito dei vescovi diocesani organizzare un sistema di sostentamento efficace e garantire un mantenimento dignitoso per coloro che svolgono o hanno svolto una funzione al servizio del popolo di Dio. Tuttavia, il sistema di sostentamento deve ispirarsi alla povertà evangelica, evitando qualunque parvenza retributiva e conformandosi alla volontà del Concilio di conformare interamente lo stato di vita e lo statuto giuridico di ogni sacerdote alla povertà evangelica. L’Istituto è quindi chiamato ad agire in nome della Chiesa, ma non sembra esserci un obbligo di personificazione giuridica, anche se la situazione potrebbe variare in base alle normative specifiche dei singoli Paesi. L’articolo sottolinea che la creazione di un Istituto di sostentamento è un dovere del vescovo diocesano, salvo situazioni particolari. Le fonti del patrimonio degli Istituti Diocesani, che devono essere stabili e proporzionate al loro scopo. La prima fonte è rappresentata dal patrimonio dei benefici soppressi, mentre la seconda è costituita dalle offerte dei fedeli e dai beni delle pie fondazioni non autonome. Inoltre, il vescovo può destinare risorse economiche agli Istituti in caso di necessità. La finalità degli Istituti Diocesani è quella di sostenere coloro che si dedicano al ministero ecclesiastico, in particolare quelli che prestano servizio a favore della diocesi, tra cui i vescovi, i presbiteri e i diaconi, anche permanenti. Anche i chierici non incardinati nella diocesi possono essere considerati a servizio della stessa se prestano un servizio stabile in favore della diocesi. In Italia, l’incorporazione del patrimonio beneficiale è avvenuta per via patrizia, regolata dalle Conferenze episcopali in accordo con la Santa Sede.

Il terzo passo della riforma del sistema del sostentamento del clero in Italia è rappresentato dall’accordo di revisione del Concordato lateranense del 18 febbraio 1984. La Relazione sui principi, preliminarmente stesa dalla Commissione, ci consegna le linee ispiratrici della riforma del sistema di sostentamento del clero e delle forme di intervento finanziario dello Stato rispetto ad esso. La riforma mira a garantire il pieno rispetto delle scelte dei cittadini e il loro diretto apporto alle comunità ecclesiali e confessionali, predisporre meccanismi di autofinanziamento facilitato, finalizzare i flussi finanziari al sostentamento del clero e ad altri scopi e individuare un sistema che assicuri un decoroso sostentamento del clero. La riforma ha portato all’estinzione dei benefici ecclesiastici e alla creazione di un sistema a tre livelli: gli enti ecclesiastici, gli Istituti Diocesani e l’Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero.

Gli Istituti Diocesani hanno preso il posto dei benefici in tutti i loro rapporti attivi e passivi. Le parrocchie e le diocesi hanno ricevuto la personalità giuridica civile, mentre gli immobili adibiti ad attività religiose e pastorali sono stati trasferiti ad esse. Il sistema prevede la remunerazione dei sacerdoti che svolgono servizio in favore della diocesi da parte degli enti ecclesiastici presso cui esercitano il proprio ministero, secondo quanto stabilito dai vescovi diocesani e sentito il Consiglio presbiterale. L’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero interviene integrativamente nel caso in cui quanto corrisposto agli stipendi dei sacerdoti non sia sufficiente. L’articolo sottolinea la pluralità di attori coinvolti nel sistema, ognuno dei quali persegue il proprio fine in piena autonomia, senza che sussista tra di loro una responsabilità solidale.

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